SAN LAZZARO – In occasione del viaggio in Turchia di don Stefano e don Andrea è successo che anche i due preti rimasti, Antonio e Catalin, fossero indisposti. Come ha reagito la comunità?
Non so come, ma i nostri preti mi fanno sentire come in famiglia:
don Antonio è il mio fratellino. Quando è nato avevo già 11 anni, ma l’ho conosciuto, anzi riconosciuto, solo 52 anni fa;
don Stefano è nato neppure tre mesi prima della mia figlia “piccola”, eppure è mio padre. Gli assomiglia: parla con gli occhi più che con parole;
don Andres ha gli anni di molti miei scolari, e come loro per me, è un misto di rispetto e di voglia di prendermi in giro;
don Catalin ha solo qualche anno in più di mio nipote grande, e come lui, mi chiama nonna.
Questi sono “i magnifici quattro” di cui la chiesa di San Lazzaro ha sperimentato la presenza, se non proprio fisicamente, ma certamente in comunione, per alcuni giorni.
Ce ne accorgemmo il giovedì sera…
Don Stefano e don Andres, pellegrini in Turchia con il Vescovo e una fetta di confratelli, preti e diaconi… va bene, passi! Ma che don Antonio e don Catalin fossero in “clausura” in compagnia del Covid…!? E NOI?
Non so come quei giorni siano stati visti: forse come il famoso bicchiere mezzo vuoto: “ecco! Il Covid giustiziere dell’incoscienza dei preti turisti!”;
potevano essere vissuti con un senso di rifiuto o ribellione: “bene, allora me ne vado anch’io!”
Per me è stata un’esperienza bella.
L’annuncio che entrambi i preti erano ammalati, dato dai nostri accoliti, fu seguito da un costernato, profondo silenzio. Ma subito l’annuncio continuò: non ci sarebbe stata la celebrazione della Messa, ma una “liturgia della Parola”, cioè la proclamazione delle letture del giorno seguite dal Padre Nostro e dalla preghiera finale. E così abbiamo pregato sentendoci veramente in comunione coi vicini e coi lontani.
Da quel giovedì sera medito su alcune foto fra le tante che i pellegrini ci inviano ogni sera: visite ad alcune piccole, altre piccolissime comunità di Cristiani. Vivono la fede nella loro vita povera, ma ricchissima di accoglienza, di preghiera, di custodia di quelle chiese rupestri, che solo per opera loro e grazie a loro, rimangono aperte da secoli. In una di queste c’è un monaco solo.
Basta un monaco, uno solo, e la fede viene nutrita e tramandata cosi, dai nonni ai nipoti.
E penso alla nuova evangelizzazione a cui siamo chiamati noi laici, nella società, già in atto, in gran parte scristianizzata. Benedetti i nostri accoliti che frequentano i corsi di preparazione per i vari ministeri: lettori, ministri della Eucarestia, accoliti, diaconi permanenti. Come quei piccoli primissimi gruppi di credenti in Gesù predicato da evangelizzatori itineranti; come quei settanta discepoli che furano mandati da Gesù ad annunciare il Regno di Dio. Nuovi discepoli come allora, come ancora oggi in Turchia o nei continenti di missione, o da noi, in un futuro già presente.
Jolanda Cavassini